Pubblico anche qui l’articolo che la giornalista Roberta Voltan mi ha chiesto di scrivere per “Toniolo Ricerca”.
L’espressione “dissesto idrogeologico” sta ad indicare tutti quei fenomeni di stravolgimento del territorio che si sviluppano quando si altera pesantemente l’equilibrio fra il suolo e l’acqua che lo copre o l’attraversa. L’interazione di questi due elementi ha determinato il nascere e lo svilupparsi delle civiltà, come in Mesopotamia, così nel Veneto di 4000 anni fa, ma è sempre stato anche fonte di problemi. Le alluvioni ad esempio sono un retaggio antico del nostro territorio: la prima di cui si abbia testimonianza risale al 589 d.C., ed è facile ricollegarla, oltre che ad un periodo di piogge straordinarie, all’incuria seguita alla caduta dell’impero romano.
Questa incuria si rivela oggi nel livello esasperato di consumo del territorio, sfruttato da politiche poco lungimiranti, che, insieme alle caratteristiche dei fenomeni meteorologici, meno frequenti e più intensi a causa dei cambiamenti climatici, contribuisce ad aggravare il pericolo.
Fenomeni principali del dissesto idrogeologico sono:
- l’abbassamento delle falde ed il conseguente abbassamento dei terreni soprastanti (subsidenza), provocato dai cospicui emungimenti a scopo irriguo, industriale ed in minor misura idropotabile, che hanno causato ad esempio la scomparsa di paradisi naturali come quello che circondava le sorgenti del Tergola, ora non più visibili; nelle zone costiere, questo fenomeno causa una maggiore intrusione salina nelle acque dolci, determinandone il progressivo peggioramento della qualità
- la maggiore frequenza di eventi di piena eccezionale dei fiumi, purtroppo sempre più spesso accompagnati da emergenze alluvionali come quella del novembre 2010 nel padovano e nel vicentino. Gli effetti delle piene sono aggravati dalla progressiva riduzione di permeabilità e di copertura vegetale dei suoli urbani, che rende i terreni ulteriormente instabili.
Il quadro regionale rispetto al consumo di suolo
In contesto agricolo esiste ancora una scarsa informazione rispetto al problema: molte sono ancora le realtà poco attente ai sistemi di irrigazione, dove prevalgono tecniche irrigue a bassissima efficienza, come quelle a spruzzo, in cui un elevato quantitativo di acqua viene perso per evaporazione. La sensibilizzazione delle imprese agricole è fondamentale e dovrebbe essere prioritaria anche rispetto agli interventi ingegneristici di ricarica artificiale delle falde.
Lo stesso vale per il settore industriale: troppo spesso ancora oggi si by-passano i limiti allo scarico dei reflui aumentando l’estrazione delle acque dai pozzi, in modo da diluire gli effluenti e far rientrare i parametri nei limiti di concentrazione tabellari. Questo comporta un triplice danno: da un lato, l’abbassamento delle falde, dall’altra, l’inquinamento ambientale. Anche nel caso i reflui vengano infatti scaricati nel sistema fognario, si rende necessario aumentare i cicli di pompaggio e relativi consumi; inoltre, portate eccessivamente diluite mettono in crisi gli impianti di depurazione.
In contesto urbano, l’aspetto più critico è dovuto al continuo aumento dello spazio costruito e delle superfici impermeabili ad esso correlate. Nonostante il numero di abitazioni in esubero superi le 15mila unità solo nell’area metropolitana di Padova (dati ISTAT censimento 2011), il consumo di suolo procede: il Veneto è capofila nel settore costruzioni, con una utilizzazione di 1100 chili pro capite di cemento, contro la media italiana di 800 e quella europea di 400.
Buone pratiche
Come si può contrastare il dissesto idrogeologico? Le buone pratiche portate avanti a livello di singola impresa o individuale non sono certo decisive. E’ fondamentale una campagna di sensibilizzazione seguita dall’attivazione di interventi che invertano l’attuale trend, grazie a finanziamenti specifici nei tre settori (agricolo, industriale, civile).
Pratiche da incentivare in ambito agricolo/industriale sono l’adozione di sistemi di utilizzo dell’acqua più efficienti, che comportino la minimizzazione degli sprechi; sistemi di riuso e riciclo delle acque; la realizzazione di bacini per il recupero dell’acqua di pioggia; la riduzione delle aree impermeabilizzate tramite realizzazione di pavimentazioni drenanti ed alberate e coperture e facciate verdi; il potenziamento dei sistemi di ricarica artificiale.
In ambito urbano, fondamentale è promuovere tramite finanziamenti il restauro del costruito e la riduzione dei suoli impermeabili. Moltissime sono le azioni che si possono intraprendere, anche coinvolgendo la cittadinanza: la piantumazione di alberi nelle aree incolte, lungo le strade, nei numerosi parcheggi che andrebbero resi drenanti; l’incentivazione della pratica degli orti urbani, che aumentano la consapevolezza rispetto ai cicli naturali; l’incentivazione dei “tetti verdi” e del recupero dell’acqua di pioggia anche per usi domestici (irrigazione delle piante e del giardino, lavaggio dell’auto, utilizzo per lo sciacquone del WC e per la lavatrice).
L’aumento delle alberature e del verde, oltre a contrastare il dissesto idrogeologico e rendere meno critica la gestione degli eventi piovosi intensi, migliora decisamente la qualità della vita nelle aree urbane: il verde riduce l’effetto delle “isole di calore”, permettendo una maggiore fruibilità degli spazi esterni durante l’estate e riducendo il ricorso a sistemi di condizionamento negli ambienti confinati, sistemi che viceversa incidono nell’aumento globale del calore, in una spirale negativa che andrebbe assolutamente bloccata. Inoltre, il verde assorbe parte degli inquinanti che industria, trasporti e comparto civile riversano nell’atmosfera e, da qui, nelle acque superficiali e profonde.
Il contrasto al dissesto idrogeologico potrebbe rivelarsi dunque di estremo beneficio non solo sotto il profilo della sicurezza, ma anche sotto il profilo della tutela della qualità dell’ambiente e della salute, in particolare se connessa alla riduzione della cementificazione. La produzione di cemento è una delle attività a maggiore impatto ambientale, ulteriormente nociva da quando nei cementifici si possono bruciare legalmente i rifiuti urbani, con limiti sulle emissioni molto meno restrittivi rispetto a quelli imposti agli inceneritori. Non è forse eccessivo collegare l’andamento del consumo di suolo in Italia con le condizioni di salute della popolazione: nel periodo 1988-2002, il Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute (www.epicentro.iss.it) ha osservato un aumento dei tumori nei bambini del 2% annuo in Italia, contro un aumento in Europa dell’1,1% annuo.
Azioni “dal basso” per contrastare il dissesto idrogeologico e promuovere la qualità dell’ambiente
L’azione individuale diventa efficace se incanalata in forme di partecipazione collettiva in grado di influenzare le scelte politiche.
A fine ottobre 2011 è nato il movimento nazionale “Salviamo il Paesaggio”, comprendente 783 organizzazioni, tra cui 80 associazioni nazionali e 703 tra associazioni e comitati territoriali. Il movimento ha coinvolto diverse amministrazioni comunali nella realizzazione di un “Censimento del cemento”. A questo ha fatto seguito il progetto di un parco “agro-paesaggistico”, che mira a riconoscere e tutelare le zone agricole urbane e peri-urbane, anche intercomunali, e contrastare i danni prodotti dalla frammentazione amministrativa del territorio. Diverse amministrazioni si sono mostrate interessate e partecipative.
La definizione delle aree edificabili a scala comunale è infatti alquanto rischiosa, e dovrebbe essere guidata da una pianificazione provinciale e da una azione amministrativa di livello superiore in grado di compensare i comuni per gli introiti non ottenibili dalle urbanizzazioni.
Comuni virtuosi
Attualmente le scelte a difesa del territorio sono lasciate in mano a sindaci controcorrente, come Domenico Finiguerra, già sindaco di Cassinetta di Lugagnano, e Roberto Corti, sindaco di Desio, che nei piani regolatori hanno azzerato, o contenuto drasticamente, le nuove zone edificabili.
A Torino è stata da poco approvata dal Consiglio Comunale una delibera promossa dalla sezione locale del movimento che prevede di introdurre, oltre agli orti collettivi “intesi anche come strumento di aggregazione e servizio di interesse pubblico” forme di certificazione che valorizzino le coltivazioni effettuate secondo criteri di sostenibilità (rotazione e attenzione all’uso di prodotti chimici), e premino la differenziazione delle colture nelle aree di maggiore estensione.
Sempre a Torino si sono sperimentate anche le “zone 30”, in cui le auto e gli altri mezzi a motore non possono superare i 30 km/h. Queste zone permettono di ripensare la viabilità e migliorare vivibilità dei quartieri e benessere dei loro abitanti: in una strada in cui auto e ciclisti vanno alla stessa velocità, non c’è necessità di pista ciclabile, e gli alberi possono trovare la loro comoda collocazione. Minore velocità significa maggiore sicurezza, che favorisce a sua volta l’utilizzo della bici, producendo un circolo virtuoso. Infine, le zone 30 permettono di utilizzare asfalti e pavimentazioni permeabili, come quelle adottate nelle strade secondarie di Chicago per evitare gli allagamenti ed i rigurgiti fognari.
Queste pratiche potrebbero essere promosse, anche tramite adeguati finanziamenti, a livello nazionale, per una maggiore diffusione nei comuni italiani.
*Ester Giusto, ingegnere ambientale, Water treatment design consultant
Pubblicato anche su: www.tonioloricerca.it/mensili/mensile-novembre-2012/dissesto-idrogeologico-serve-uninversione-di-rotta.html.
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